Intitolata agli originari Patroni della Città, in antico era la chiesa più importante di Leonesssa, anche dal punto di vista civile: in essa infatti avveniva, fino a tutto il XVII Secolo, il solenne giuramento dei Priori – all’atto del loro insediamento – nelle mani dell’Abate degli Agostiniani.
Come per la chiesa ed il convento di San Francesco, anche in questo caso il complesso fu realizzato a più riprese e nei secoli ha subito diversi restauri e rifacimenti a causa soprattutto dei danni dei terremoti, tra i quali il più dannosi fu quello del 1703.
L’edificio è costituito da due chiese sovrapposte, orientate con l’abside a Sud-Est, e tra loro comunicanti attraverso un’ampia scalinata ubicata al centro della nave superiore.
La chiesa superiore originariamente doveva essere o a tre navate con sei campate per lato, o a nave unica con cappelle laterali comunicanti tra loro (modello simile a tre navate), testimoniate dalla mezza cappella con volta a crociera costolonata collocata in prossimità del transetto, riportata in luce durante i lavori eseguiti nel 1960 dalla Soprintendenza ai Monumenti di Roma. L’impianto era concluso da due cappelle pentagonali contrapposte, più grandi e collocate nelle testate dello pseudo-transetto, e da una grande abside.
Gli stessi lavori hanno riportato in luce anche alcuni affreschi del XIV-XV secolo (tra cui i più conservati San Nicola da Bari e San Nicola da Tolentino), che si trovavano sulle pareti della cosiddetta “Cappella Gotica”. Queste recenti acquisizioni ci consentono di datare la costruzione della prima parte della chiesa superiore (chiesa più pseudotransetto, ma ancora senza facciata) tra il XIII e il XIV) secolo. ( Per completezza di informazione occorre aggiungere che nella chiesa fino al 1703 si conservava una statua di S.Caterina risalente al 1238. Il che lascerebbe presumere l’esistenza della chiesa anteriormente alla fondazione di Leonessa).
Mentre tra il XIV e il XV secolo è da collocare la realizzazione della facciata (compreso il campanile), a conclusione dei lavori, che di solito prendevano avvio dal coro. La data 1467, scolpita sull’architrave del portale in lettere gotiche, insieme allo stemma di Leonessa, non va riferita alla realizzazione della facciata, bensì alla goticheggiante struttura “a carena di nave”.
Nei primi anni del XVII secolo la chiesa fu decorata con una serie di nuovi altari e, sul finire del secolo, furono restaurate le parti alte della facciata con il rosoncino, e fu costruita la scarpa sotto il campanile. Il terremoto del 1703 lesionò gravemente le navate laterali e provocò il crollo della navata centrale e dell’abside. I lavori di restauro si protrassero per diversi anni e comportarono la demolizione dell’abside e delle due navate laterali, sostituite con otto cappelle, conferendo alla chiesa la tipica facies baroccheggiante che ancora presenta. La volta in muratura fu sostituita da una in legno a finti cassettoni dipinti. Nel 1911 nel corso di alcuni nuovi lavori di restauro la volta a cassettoni fu sostituita con quella attuale a capriata. Altri lavori di restauro e consolidamento sono stati eseguti dopo i terremoti del 1979, 1997, 2016.
La Facciata, in Stile Romanico, in conci di pietra rossa locale, a coronamento orizzontale, non è allineata con la navata, ma risulta ruotata di 10 gradi, probabilmente per esigenze estetiche relative al contesto architettonico della piazza, e non copre le cappelle dalla parte destra. Particolare che sta ad indicare inequivocabilmente che si tratta di un più tardo completamento, adattato forse ad una situazione urbanistica evolutasi profondamente nel tempo.
Il Portale, con arco a tutto sesto, in stile gotico – romanico abruzzese, in pietra rossa locale, presenta delle colonnine alternate lisce e sottili con capitelli corinzi. La lunetta è affrescata con alcuni simboli agostiniani: la mitria, la Cintura con un libro, il bacolo o pastore vescovile. L’archivolto, riprendendo un tema tradizionale dell’ornamentazione del portale Romanico, è finemente decorato con vitigni e puttini nudi intenti alla vendemmia (la vite nel nuovo Testamento simboleggia il Cristo: “io sono la vite”, dice il Salvatore) ed è sormontato da una postica struttura a chiglia di nave (simile e quelle dei portali delle chiese abruzzesi di Sant’Agostino d’Atri e di San Massimo, di Isola del Gran Sasso) su cui poggia un’arcaica statua di Cristo in pietra bianca locale ( XV Secolo): mentre sui due pinnacoli laterali sono collocate, a sinistra la statua di San Pietro con le chiavi in mano e a destra quella di San Paolo con un libro in mano.
Il campanile è in elastica pietra sponga locale e presenta delle grandi bifore trilobate e finestroni sestoacuti. L’alta cuspide ottagonale è decorata con motivi a crochetes, ampiamente diffusi nel trecento italiano (si veda la chiesa di Santa Giuliana a Perugia) che si ispirano a moduli decorativi francesi del XIII secolo.
Queste influenze transalpine trovano conferma innanzitutto nelle origini angioine di Gonessa e nella continua presenza di Capitani francesi nella città.
L’interno La chiesa è a navata unica barocca con la volta a capriata
e con una serie di cinque cappelle laterali, più le ultime due, medievali, più profonde con le volte a crociera. Al centro della navata un’ampia scalinata
immette nella chiesa inferiore.
Diverse e molto importanti sono le opere d’arte presenti sia nella chiesa superiore che in quella inferiore. Nella prima, domina sull’altare maggiore l’imponente (m 4,55×2,70), quanto suggestiva, Pala dell’Assunta (1543) di Giacomo Santori da Giuliana (Palermo), detto Jacopo Siculo, nato in Sicilia sul finire del XV secolo e morto a Rieti nel 1544.
Il dipinto, olio su tavola centinata, raffigura la Vergine assisa tra le nubi, contorniata da angeli festanti ed accolta da Dio a braccia aperte. Lo sguardo della Madonna è rivolto in basso, quasi ad accompagnare la mano che lascia cadere verso l’Apostolo Tommaso, inginocchiato sopra un’altura, una cintura (episodio tratto dall’apocrifo del “Transito della Beata Vergine
Maria”) che diverrà poi uno dei simboli dell’Ordine Agostiniano.
L’ampio paesaggio è illuminato dalla chiara luce del mattino ed è evidente l’allusione agli incontaminati paesaggi della “Verde Umbria”, nelle cui chiese il pittore lavorò molto. In basso, al centro della scena, spicca il sarcofago vuoto della Vergine, ai lati del quale sono raffigurati San Pietro, in piedi con le chiavi, e San Paolo, anche lui come Pietro con lo sguardo rivolto verso il cielo e che si appoggia con le mani sulla grande spada, simbolo
del suo martirio. Alla destra di Pietro – attorniato da quattro apostoli – sono effigiati in ginocchio, in atteggiamento estatico, Sant’Agostino, con ai piedi il
pastorale e la mitria, mentre prega con le mani giunte, vestito con un piviale dorato riccamente ricamato nello stolone e Santa Caterina d’Alessandria, con la ruota del martirio. Nella predella della tavola sono dipinti l’Annunciazione, l’incontro di Sant’Agostino con il fanciullo, la
liberazione di San Pietro dal carcere, la deposizione di Cristo e la conversione di San Paolo. L’opera presenta evidenti suggestioni raffaellesche rinvenibili, oltre che nella duplice ambientazione della scena (terrestre e celeste) e nella studiata simmetria della composizione, anche nella disposizione dei tre Apostoli (Pietro, Giovanni, Paolo) e nel panneggio
dei quattro angeli librati in alto, facenti corona all’Assunta; tutti elementi che richiamano la Pala degli Oddi commissionate a Raffaello nel 1502 per la
chiesa di San Francesco a Perugia e ora nella Pinacoteca Vaticana.
La prima attribuzione della Pala a Jacopo Siculo si deve all’erudito notaio leonessano Durante Dorio (Leonessa 1571, Foligno 1646), già nel lontano XVII secolo, come si può leggere nel suo scritto riguardante “Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, scultori italiani, da Cimabue insino ai tempi nostri di Giorgio Vasari”. Il Dorio afferma: «Di Giacomo Siciliano si vede
una cappella in tavola nella chiesa di S. Pietro di Leonessa dove stanno li Frati Eremitani di S. Agostino, dove si rappresenta l’assunta in cielo».
Prosegue poi la descrizione dell’opera in tutti i suoi particolari, tra cui quello della consegna della cintura. L’attribuzione ufficiale dell’opera a Jacopo Siculo risale solo al 1957, allorché in occasione di un restauro
della pala fu riportato in luce un cartellino, al quale era stato raschiata l’iscrizione, che invece fu sicuramente vista dal Dorio che poté così tramandarci il nome dell’artista siciliano. Precedentemente il dipinto
era stato attribuito al Perugino o al Muziano. Un’ulteriore conferma ci viene dall’analisi comparativa con un’altra tavola del Siculo, l’Incoronazione
della Vergine, eseguita nel 1541 per la chiesa
dell’Annunziata di Norcia. Ciò ci consente anche di datare l’opera di Leonessa al 1543, poiché presenta un più sobrio equilibrio di masse e colori, frutto della fase matura dell’artista, che morirà l’anno seguente.
Molto importante, sia dal punto di vista artistico che storico-culturale, è la tela della Vergine con il Bambino tra i SS. Rocco e Sebastiano (1605),
collocata nella prima cappella di sinistra, dono dei mastri Lombardi operanti a Leonessa già dalla fine del XV secolo e soprattutto nel XVI. Sotto il cagnolino di San Rocco figura l’iscrizione: “Ex devotione longobardorum MDCV”. Il quadro presenta nell’impianto generale suggestioni Carraccesche, ma le figure sono di fattura stentata. Nella seconda cappella dello stesso lato si può ammirare una pregevole “Sacra famiglia” (XVII secolo) di scuola Emiliana, attribuita a Simone Pignone. Nella tela sono raffigurati la Vergine con il Bambino tra i SS Gioacchino, Giuseppe, Anna. Quello che più
colpisce è il forte contrasto tra ombre e luci a cui si accompagnano la sobrietà del colore e la delicatezza plastica dei lineamenti e del paesaggio.
Nella cappella seguente si trova una delle più belle ed importanti opere d’arte di Leonessa: la Vergine con Bambino tra i SS. Agostino, Caterina d’Alessandria, Carlo Borromeo, firmata da Giovanni Lanfranco da Parma (Parma 1582, Roma 1647). La tela fu dipinta dal pittore emiliano forse tra il 1616 e il 1617, come lascia supporre sia la data incompleta “161” scritta, unitamente alla firma, su un cartiglio in basso a sinistra, sia la presenza dell’artista a Roma in quegli anni. Molto probabilmente fu commissionata
dai Farnese di Parma che in quel periodo avevano Leonessa ancora in feudo. Solo così si può spiegare la presenza del dipinto in un centro ai margini delle grandi committenze.
Diversi sono gli influssi correggeschi presenti in questa tela, ravvisabili nel Bambino Gesù benedicente San Carlo e soprattutto nella figura di Sant’Agostino, nella quale il pittore sembra direttamente richiamarsi
al San Geminiano della pala del Duomo Modena, del Correggio. Da quest’opera il Lanfranco ha ripreso anche la composizione fitta e la prossimità delle due sfere spaziali (quella celeste e quella terrestre), che
sembrano quasi compenetrarsi. Per quanto attiene la struttura compositiva, l’artista ha separato i tre santi, collocandoli asimmetricamente ai lati della zona terrestre: due a sinistra (San Carlo e Santa Caterina) e uno a destra (Sant’Agostino), lasciando così un vuoto nel mezzo che sfrutta per introdurvi la veduta di un paesaggio in lontananza, a intensificare il senso dello spazio.
La Santa effigiata nella tela, in ginocchio con lo sguardo rivolto verso l’alto, avvolta in un ampio e delicatissimo panneggio dalle pieghe finissime e
e morbidamente ondulate, è stata recentemente identificata
dai critici con Santa Caterina d’Alessandria, per la presenza della spada (versione colta del martirio, vedi l’opera del Caravaggio) e di un frammento della ruota della sua passio. Il popolo di Leonessa, invece, per svariati anni l’ha identificata con Santa Eurosia, forse per la vampa rossastra del bagliore dell’orizzonte dipinta sullo sfondo, scambiata per fornace. Ecco spiegato il motivo per cui a questa Santa spagnola – un personaggio dai contorni leggendari – si rivolgevano “li cargaroli” leonessani (i costruttori delle fornaci per la produzione della calce, le “Cargare”), impetrando una buona
cottura dei sassi, senza incidenti. Prima di dare fuoco alla “cargara” si recavano nella chiesa di San Pietro a venerare la presunta Santa Eurosia della tela del Lanfranco e chiedevano al Priore della Confraternita
un’immagine della Santa da gettare sulla fornace a scopo propiziatorio.
Sant’Eurosia godeva – e gode tuttora – di una particolare venerazione presso gli abitanti di Villa Pulcini (di cui è Patrona) che la invocavano, con diversi
scongiuri, contro i temporali e i fulmini. La tela del Lanfranco dovette essere particolarmente apprezzata dai leonessani, tanto che la dotarono della ricca cornice lignea in cui fu incastonata, e ne fecero eseguire subito una copia di minori proporzioni,
più sbiadita nei colori ma perfetta nei rapporti, che ora si trova nel museo della chiesa di San Francesco. Nel 1956 l’originale tela del Lanfranco fu ripulita e restaurata. Ad analogo trattamento fu sottoposta nel
1981 ad opera del restauratore Antonio Liberti. In questa occasione fu rimosso l’angelo che sorreggeva la Vergine a sinistra, vicinissimo alla testa di San Carlo, in quanto posticcio.Una copia seicentesca del dipinto, delle stesse proporzioni ma di fattura modesta, è conservata anche nei depositi della Pinacoteca Vaticana. Nel 2002 la tela è stata esposta a Roma in un’importante mostra dedicata al pittore parmense. Nella quarta cappella si trova una tela raffigurante San Tommaso di Villanova (XVII secolo).
Nella cappella seguente vi è una copia del celebre dipinto del Guercino, Eremi Cultores: i SS. Giovanni Battista, Benedetto e Girolamo (XVII secolo).
Nella parete di destra dell’abside quadrangolare è collocata una tela raffigurante una Madonna Salus Populi romani, tra i SS. Nicola da Bari, Carlo Borromeo e Luigi Gonzaga, già pala dell’altare maggiore
della chiesa di San Nicola di Poggio, commissionata dai missionari Antonio Baldinucci, Antonio Mavilli e Giovanni Maragoni per la Venerabile Confraternita degli Artisti, nel 1704.
Sulla parete di destra della cappella gotica, dalla caratteristica volta a crociera, vi sono alcuni affreschi (XIV-XV secolo) raffiguranti San Pietro Apostolo, San Ludovico da Tolosa (re di Francia), figlio di Carlo
II d’Angiò, San Nicola da Bari e San Nicola da Tolentino. Nello stesso ambiente è murato un altare rinascimentale in terracotta. Nella prima cappella di destra si trova una pregevole tela attribuita all’orbetto raffigurante la Vergine con il Battista e la Maddalena (XVI secolo).
Segue l’altare dell’Università di Valle Leonina con una bella tela attribuibile ad Ercole Orfei da Fano, effigiante la Vergine con il Bambino tra i SS. Agostino, Egidio e Liberatore (fine XVI secolo). Nella terza cappella si trova una bella Annunciazione del XVII secolo a cui segue una tela raffigurante
Sant’o mobono (XIX secolo), patrono dei Sarti. Nella cappella successiva sono collocati l’altare della Madonna della Consolazione (XVIII secolo) e una
suggestiva tela di ignoto pittore locale raffigurante la Vergine Incinta (XVII secolo). L’ignoto artista sembra essersi ampiamente ispirato all’affresco di
Bartolomeo Cesi che si trova nella chiesa della Madonna di Miramonte a Bologna, databile tra il 1595 e il 1610. Ma il prototipo è la famosa quanto aristocratica Madonna del Parto di Piero della Francesca. La tela di Leonessa, pur qualitativamente inferiore, è di pregevole fattura: nella figura della Vergine l’autore è riuscito perfettamente a coniugare delicatezza e regalità, esaltate dalla luminescente aura gialla che
evidenzia il candore del velo.
Il dipinto presenta anche un alto valore teologico costituito dalla raffigurazione della Madonna intenta a meditare il Verbo (Vangelo) che tiene in mano e il Verbo che porta in grembo e dall’invito a fare altrettanto
al passeggero che contempli la tela, come si legge nell’iscrizione, in latino, nel cartiglio ai suoi piedi (che traduciamo):
“O Passeggero tu contempli la Vergine Maria che porta in grembo
il Verbo e medita il Verbo”.
La tela, forse,originariamente era collocata nella chiesa di San Carlo Borromeo, come lascerebbe presupporre l’esistenza in questa
chiesa di un altare dedicato alla “Beatissima Virginis pregnantis”, menzionato nella visita pastorale di Mons. Facchinetti del 1659.
Da segnalare, infine, la presenza di un imponente organo del XVIII secolo, collocato nella cantorìa sovrastante la porta di ingresso alla chiesa.
(Luigi Nicoli – “Leonessa, la Città di San Giuseppe” – Ed. “Leonessa e il Suo Santo” – Foto : Anavio Pendenza)